Testare il sistema o costruire gerarchie?
Se le prove Invalsi avessero il
solo fine di “testare” il funzionamento
del sistema scolastico,
sarebbero state somministrate
“a campione” come oggi avviene
con i dati PISA (che confrontano
le performance dei sistemi scolastici di vari Paesi),
così avremmo un’idea “in generale” sulla qualità
dell’istruzione in periferia e in centro città, al Sud
o al Nord.
Al contrario il Ministero considera la somministrazione
delle prove Invalsi come obbligatoria per
ogni scuola.
Scuole di serie B, per sempre?
Anche in altri Paesi (ad esempio
Regno Unito e USA) si utilizzano
da tempo test nazionali sistematici,
finalizzati all’assegnazione
di un punteggio ad ogni scuola.
E ciò ha prodotto deformazioni di sistema pericolosissime.
I genitori sono portati ad iscrivere i figli
presso le scuole con più alto punteggio, che dunque
hanno un numero di aspiranti iscritti sovrabbondante.
Queste scuole possono così permettersi
di selezionare l’utenza in base ai precedenti risultati
scolastici degli aspiranti. Si crea così un circolo
vizioso in base al quale le scuole dichiarate di
serie A godono già in partenza di un vantaggio
che si replica ad ogni nuova tornata di test.
Per le scuole di serie B è difficile uscire dal proprio
stato perché sono “costrette” ad accogliere gli studenti
con più difficoltà “scartati” dalle scuole ad
alta valutazione. Una scuola pubblica non discriminante,
invece, dovrebbe dare spazio ad una
utenza variegata, per non creare scuole ghetto.
È vero, in parte oggi questo già avviene, ma la
valutazione di scuola darà rigore pseudoscientifico
a questa dinamica che lo Stato, invece, dovrebbe
attivamente contrastare.
I “premi” solo al 25% delle scuole
Nei Paesi dove regna la dittatura
dei test, le scuole che conseguono
alti punteggi godono di “premi”,
cioé risorse aggiuntive.
Che sia questo il fine della Gelmini
è dimostrato dal “progetto sperimentale per la
valutazione delle scuole” varato dal Ministero nel
novembre scorso e che ha coinvolto, tra le proteste
dei genitori, alcune città. Il progetto prevedeva
che “alle scuole che si collocano nella fascia più
alta della graduatoria (massimo 25% del totale)
verrà assegnato un premio di importo significativo
(fino ad un massimo di 70.000 euro a scuola in base al numero degli insegnanti) che avrà come
vincolo di destinazione la retribuzione del personale
effettivamente operante nella scuola nel periodo
di sperimentazione”.
I premi non incentivano nessun miglioramento
Questi premi non servono ad incentivare
alcun miglioramento,
dato che il fatto che una scuola
sia di “serie B” dipende dal tipo
di utenza che la frequenta più
che dalla qualità dell’insegnamento.
È noto da tutte le ricerche sociologiche effettuate
sull’argomento, che il successo scolastico
è direttamente legato alla classe sociale di origine,
al capitale culturale familiare, alla solidità del nucleo
familiare, al contesto ambientale. Detto in poche
parole: una scuola di periferia non ha alcuna
possibilità di rivaleggiare, a parità di condizioni,
con una scuola del centro città. Una scuola pubblica
che vuol garantire pari condizioni di accesso
all’istruzione, deve dirigere gli investimenti
e gli “aiuti” non alle scuole “di successo”,
perché non ne hanno bisogno ma, al contrario,
a quelle con maggiori problematicità.
Gli studenti in difficoltà? un peso morto
La crescente importanza data ai
punteggi assegnati ad ogni
scuola farà sì che le scuole scoraggeranno
tutti gli studenti in
difficoltà a proseguire gli studi.
Più studenti in difficoltà frequenteranno una determinata
scuola, infatti, e più il punteggio complessivo
di quella scuola sarà penalizzato.
Si accentuerà così la tendenza a bocciare o in
qualche modo a scoraggiare la permanenza nella
scuola. Un sistema scolastico che vuol far crescere
l’insieme dei suoi giovani cittadini deve
invece incoraggiare le scuole a “tenere” i propri
studenti, e a trovare le migliori strategie per
assicurare il loro successo scolastico.
Nell’ospedale che cura i sani tutti i dottori sono bravissimi
Tra i compiti dell’Invalsi c’è anche
quello di suggerire al Ministero
metodi per differenziare i
docenti in base al “merito”.
Uno dei modi più semplici, in
voga in altri Paesi, è proprio
quello di legarlo al successo della
propria scuola ed eventualmente della propria
classe. I dati infatti rimangono a disposizione delle
scuole discriminati classe per classe. Ciò indurrà i
docenti ad un atteggiamento ostile nei confronti di
tutti gli studenti in difficoltà e li renderà complici
della loro rapida esplulsione dalla scuola: la diminuzione
del numero di studenti in difficoltà nella
propria classe o nella propria scuola, infatti, inciderà
direttamente sul proprio livello stipendiale.
La Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana?
Nonostante l’Invalsi assicuri che
i dati verranno “depurati” da fattori
esterni, i meccanismi di questa
depurazione non sono affatto
noti. Le variabili che incidono
sui risultati scolastici, del resto,
sono assai numerose. E se fossero
prese davvero sul serio renderebbero
inutili i test sistematici
scuola per scuola. Infatti, dati
alcuni fattori “esterni” i risultati
scolastici sono prevedibili, a parità
di risorse. Questo non significa
che il successo scolastico di
un singolo individuo con un certo
background sociale sia inesorabile.
Ma che da una “massa” di individui
accomunati da uno stesso
background sociale, sì, i risultati
sono prevedibili.
Già oggi accade così. È ovvio per qualsiasi insegnante
che c’è una differenza colossale tra insegnare
una stessa materia in un liceo del centro e
in un professionale di periferia.
Questi dati ci sono già: incrociando la provenienza
sociale degli studenti con i tassi di abbandono, i
voti di licenza media o di maturità e la residenza
geografica, ad esempio, avremmo un quadro chiaro
delle scuole da sostenere.
Ma su questi dati nessuno vuol ragionare perché
in realtà i fattori sociali che li determinano non
li si vuol modificare: al contrario si lavora per
cristallizzarli.
Una didattica piegata alla soluzione dei test
Esistono molti dubbi, inoltre,
sulla possiblità che hanno i test
di valutare gli apprendimenti.
E questo è particolarmente vero
per i bambini della primaria il
cui successo a scuola ha più a che fare con il superamento
di ostacoli di natura educativa che strettamente
didattica. Il problema però non è tanto
nell’attendibilità dei test a valutare la qualità di
una scuola, quanto nell’importanza che i loro risultati
finiscono per assumere. Se si trattasse di
un metro di valutazione tra i tanti, infatti, se ne
potrebbe discutere.
Nei Paesi dove se ne fa un uso massiccio, invece, la
didattica è stata “piegata” all’esigenza di superare
i test, proprio perché dai loro risultati dipendono
qualità dell’utenza, finanziamenti, livelli stipendiali.
Sono i test che comandano sulla didattica,
dato che per ogni scuola diventa vitale che i
propri studenti possano superarli con successo.
Già oggi una parte del tempo in terza media è
dedicato all’”allenamento” per il superamento dei test Invalsi in occasione dell’esame di stato di fine
ciclo, figuriamoci cosa accadrà quando da quei risultati
dipenderanno finanziamenti e stipendi.
Esistono competenze e abilità che i test non possono misurare
Per loro stessa natura i test tendono
a sopravvalutare la nozione
più del ragionamento, il dato
più del processo. Esistono competenze
e abilità che i test non
possono misurare, proprio per la
loro natura rigida e standardizzata.
Non misurano la capacità
di riflessione critica, la capacità di esporre il pensiero,
il livello di partenza e quello di arrivo, la
partecipazione. Misurando solo l’acquisizione di
una serie di informazioni settoriali, stimolano
una frammentazione della didattica, la sua banalizzazione.
Esaltando la performance personale
mortifica gli sforzi per arrivare alla conoscenza
come conquista di gruppo, nata dalla cooperazione
più che dalla competizione.
Le prove Invalsi sono particolarmente negative nella scuola primaria
Queste prove sono uguali per
tutti e tutte, ma nella pratica
quotidiana dell’insegnamento
invece si è a contatto con i
bambini e bambine reali e
con le loro profonde diversità
di ritmo e modo di apprendimento.
Il linguaggio delle prove richiede una capacità
di concentrazione e comprensione che supera
quella che riconosciamo nei nostri alunni e
alunne. Le insegnanti non hanno mai pensato di
organizzare e mettere in pratica verifiche di questo
tipo durante l’ anno scolastico.
I “concetti” messi in campo e “valutati” provengono
da tutti gli indirizzi cognitivi collegati alla disciplina
e fanno riferimento a tutto il lavoro svolto ad
iniziare dall’anno scolastico precedente e, magari,
non ancora affrontato nell’anno scolastico in corso.
Il tempo di somministrazione è troppo limitato
rispetto alle richieste di applicazione fatte ai bambini
e bambine.
Lo sforzo mentale che si richiede per passare da
un campo cognitivo all’altro, da un concetto ad un
altro, esige che una rete connettiva forte e motivante
lo contenga e lo sostenga, rendendolo
possibile. Il contesto di somministrazione, senza
la presenza delle insegnanti di riferimento, comporta
una evidente interruzione dell’esperienza
scolastica conosciuta, creando in alcuni casi stati
di ansia negli alunni e alunne più sensibili.
Non potendo o volendo partire dalla conoscenza
degli indirizzi didattici specifici seguiti da ogni
scuola nella sua originalità, le prove Invalsi si richiamano
ad una superiore dimensione tecnica
definita dal legislatore.
Per l’Invalsi i bambini e le bambine con disabilità,
i bambini e le bambine di altra cultura,
sono invisibili. Per le insegnanti invece essi
sono persone a cui si dedica giorno dopo giorno
attenzione perché possano avere le stesse
opportunità di tutti e tutte.
Queste sono le ragioni che ci spingono a chiedere che i Collegi Docenti decidano, facendo
appello all’autonomia, di non prestare collaborazione alle prove Invalsi (sorveglianza, somministrazione,
correzione) e di non modificare la programmazione didattica. Chiediamo anche a tutti
gli altri organismi collettivi delle scuole di prendere posizione contro: assemblee sindacali ed Rsu,
consigli di istituto e di circolo, collettivi e comitati studenteschi, comitati genitori.
Se però le condizioni di una determinata scuola non permettono prese di posizione del Collegio
Docenti, chiediamo allora agli insegnanti di aiutare i propri studenti a superare le prove Invalsi:
in questo modo l’evento potrà rivelarsi un’esperienza utile e magari divertente per gli studenti,
invalidandone però nei fatti qualsiasi presunzione di scientificità.
Rammentiamo inoltre che la sorveglianza durante le prove non è dovuta, se va oltre le ore
previste da contratto, che gli studenti possono rifiutarsi di compilare i test senza alcuna
conseguenza disciplinare, e che i genitori possono decidere di tenere a casa i propri figli il
giorno dei test.
In poche parole al fine di boicottare le prove Invalsi vanno bene tutte le iniziative, basta che siano
gestite collettivamente dalle classi. Non avrebbe senso ad esempio che ci fossero solo pochi genitori
di una classe a tenere a casa i figli o che in una scuola solo pochi insegnanti si rifiutassero
di somministrare i test, perché verrebbero sostituiti da altri e ciò non invaliderebbe i test. Il fine è
infatti quello di rendere inservibili i risultati finali.
Abbiamo la possibilità come popolo della scuola di infliggere alla Gelmini un’altra sconfitta
come quella sulla premialità docente. Questa campagna di boicottaggio è una maniera per
gridare: si vuole davvero che migliori la qualità della scuola pubblica? Allora: basta tagli!
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