domenica 10 maggio 2015

Il riflesso condizionato

Pavlov è conosciuto per aver studiato il riflesso condizionato, molti sono gli esperimenti che ha attuato. Meno noto l'esperimento sull'induzione di stati di indecisione nei cani, con cui fu in grado di indurre schizofrenia e stati confusionali nei cani. In questo esperimento Pavlov mette il cane di fronte a un cerchio o a un'ellisse, addestrandolo a premere il bottone A se si tratta di un cerchio o B se si tratta di un'ellisse. Successivamente, presenta al cane ellissi sempre più similari a un cerchio.
cerchio o ellisse?
Il cane non riesce quindi più a riconoscere la differenza tra le due figure, e quando sbaglia gli viene inflitta una scossa elettrica. Con questo esperimento studiò l'induzione di stati di indecisione e le varie tipologie della schizofrenia, strettamente connesse con il temperamento dell'animale. Senza apparentemente ledere nessuna libertà individuale riuscire ad inibire la libertà di scelta attraverso l'impossibilità di determinare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, la nostra società è colma di organismi, leggi,media che si occupano proprio di ottenere questo. La nostra società è piena di ellissi che assomigliano a cerchi e noi facciamo la fine dei cani Pavloviani, impauriti e spaventati o arrabbiati fino alla pazzia ma comunque sempre apparentemente liberissimi di scegliere. E poi c'è l'arma della divisione... La libertà e la lotta contro le ingiustizie non sono né di destra e né di sinistra così come non lo è lo schiavismo dei cittadine ad opere del sistema bancario finanziario. Questa lotta non ha colore e riguarda tutti, nessuno è a favore della guerra nel profondo del suo cuore, tutti siamo a favore di un mondo più equo, per la libertà, la condivisione e la libera espressione. Chi ci governa non è solo incapace di offrirci queste soluzioni ma ci manipolo affinché pensiamo di essere antagonisti ed impossibilitati ad unirci ed ottenerle


Salviamo il cuore verde del mondo!

Scrivici nei commenti o usando l'hashtag #InterversioneCreativa #IlCuoreVerdeDelMondo COSA FARESTI PER SALVARE IL CUORE VERDE DEL MONDO E PERCHÊ Ê IMPORTANTE




sabato 9 maggio 2015

Diciamo no alle prove Invalsi!

Il Ministero dell’Istruzione ha deciso che gli studenti di tutte le classi seconde e quinte delle scuole primarie, tutte le classi prime delle scuole medie  e le terze in occasione dell’esame di stato e tutte le classi seconde delle scuole superiori  dovranno essere obbligatoriamente sottoposti ad una serie di test. I test sono indifferenziati per fascia (ad esempio nelle superiori saranno gli stessi sia nei licei che nei professionali). I test dovranno verificare le competenze degli studenti in alcuni ambiti (italiano e matematica). I risultati dei test andranno a determinare un “punteggio” assegnato ad ogni istituto scolastico. Quanto più gli studenti di una certa scuola avranno risposto in maniera corretta, tanto più alta sarà la valutazione di quella scuola. L’agenzia che organizza questo lavoro si chiama INVALSI, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo e di formazione. Per questo i test sono chiamati “prove Invalsi”. Queste prove metteranno a confronto le scuole di tutta Italia. Dunque affinché le prove siano considerate attendibili tutte le scuole dovranno partecipare seguendo il “protocollo di somministrazione”. In poche parole si devono rispettare una serie di regole altrimenti alcuni dati risulterebbero falsati e dunque i dati nel loro complesso non sarebbero tra loro confrontabili: verrebbe compromessa l’intera attendibilità del processo. Dato che l’Invalsi non ha personale sufficiente per la somministrazione, sono le scuole stesse e i loro insegnanti a dover gestire queste prove, ed anche correggerle. Per questo il Ministero non ha la minima possibilità di raggiungere il suo intento senza l’attiva collaborazione del personale di ogni scuola. Non siamo contrari in linea di principio a che le scuole si dotino di strumenti di valutazione del proprio operato. Il dibattito non è “valutazione sì valutazione no”. Dobbiamo occuparci di “questa” valutazione, attuata da “questo” Ministero. Dobbiamo domandarci come mai un Ministero che ha ridotto sul lastrico la scuola pubblica e soppresso in tre anni 130.000 posti di lavoro, sia oggi tanto impegnato a realizzare una valutazione di massa, investendovi anche risorse non indifferenti. La risposta è semplice: si vuol dividere le scuole in quelle di serie A e di serie B. Dato che le prove Invalsi puntano a questo, siamo contrari al loro svolgimento, e chiediamo a tutte le componenti del mondo della scuola di opporvisi con ogni mezzo necessario.

Testare il sistema o costruire gerarchie?

Se le prove Invalsi avessero il solo fine di “testare” il funzionamento del sistema scolastico, sarebbero state somministrate “a campione” come oggi avviene con i dati PISA (che confrontano le performance dei sistemi scolastici di vari Paesi), così avremmo un’idea “in generale” sulla qualità dell’istruzione in periferia e in centro città, al Sud o al Nord. Al contrario il Ministero considera la somministrazione delle prove Invalsi come obbligatoria per ogni scuola.

Scuole di serie B, per sempre?

Anche in altri Paesi (ad esempio Regno Unito e USA) si utilizzano da tempo test nazionali sistematici, finalizzati all’assegnazione di un punteggio ad ogni scuola. E ciò ha prodotto deformazioni di sistema pericolosissime. I genitori sono portati ad iscrivere i figli presso le scuole con più alto punteggio, che dunque hanno un numero di aspiranti iscritti sovrabbondante. Queste scuole possono così permettersi di selezionare l’utenza in base ai precedenti risultati scolastici degli aspiranti. Si crea così un circolo vizioso in base al quale le scuole dichiarate di serie A godono già in partenza di un vantaggio che si replica ad ogni nuova tornata di test. Per le scuole di serie B è difficile uscire dal proprio stato perché sono “costrette” ad accogliere gli studenti con più difficoltà “scartati” dalle scuole ad alta valutazione. Una scuola pubblica non discriminante, invece, dovrebbe dare spazio ad una utenza variegata, per non creare scuole ghetto. È vero, in parte oggi questo già avviene, ma la valutazione di scuola darà rigore pseudoscientifico a questa dinamica che lo Stato, invece, dovrebbe attivamente contrastare.

I “premi” solo al 25% delle scuole

Nei Paesi dove regna la dittatura dei test, le scuole che conseguono alti punteggi godono di “premi”, cioé risorse aggiuntive. Che sia questo il fine della Gelmini è dimostrato dal “progetto sperimentale per la valutazione delle scuole” varato dal Ministero nel novembre scorso e che ha coinvolto, tra le proteste dei genitori, alcune città. Il progetto prevedeva che “alle scuole che si collocano nella fascia più alta della graduatoria (massimo 25% del totale) verrà assegnato un premio di importo significativo (fino ad un massimo di 70.000 euro a scuola in base al numero degli insegnanti) che avrà come vincolo di destinazione la retribuzione del personale effettivamente operante nella scuola nel periodo di sperimentazione”.

I premi non incentivano nessun miglioramento

Questi premi non servono ad incentivare alcun miglioramento, dato che il fatto che una scuola sia di “serie B” dipende dal tipo di utenza che la frequenta più che dalla qualità dell’insegnamento. È noto da tutte le ricerche sociologiche effettuate sull’argomento, che il successo scolastico è direttamente legato alla classe sociale di origine, al capitale culturale familiare, alla solidità del nucleo familiare, al contesto ambientale. Detto in poche parole: una scuola di periferia non ha alcuna possibilità di rivaleggiare, a parità di condizioni, con una scuola del centro città. Una scuola pubblica che vuol garantire pari condizioni di accesso all’istruzione, deve dirigere gli investimenti e gli “aiuti” non alle scuole “di successo”, perché non ne hanno bisogno ma, al contrario, a quelle con maggiori problematicità.

Gli studenti in difficoltà? un peso morto

La crescente importanza data ai punteggi assegnati ad ogni scuola farà sì che le scuole scoraggeranno tutti gli studenti in difficoltà a proseguire gli studi. Più studenti in difficoltà frequenteranno una determinata scuola, infatti, e più il punteggio complessivo di quella scuola sarà penalizzato. Si accentuerà così la tendenza a bocciare o in qualche modo a scoraggiare la permanenza nella scuola. Un sistema scolastico che vuol far crescere l’insieme dei suoi giovani cittadini deve invece incoraggiare le scuole a “tenere” i propri studenti, e a trovare le migliori strategie per assicurare il loro successo scolastico.

Nell’ospedale che cura i sani tutti i dottori sono bravissimi

Tra i compiti dell’Invalsi c’è anche quello di suggerire al Ministero metodi per differenziare i docenti in base al “merito”. Uno dei modi più semplici, in voga in altri Paesi, è proprio quello di legarlo al successo della propria scuola ed eventualmente della propria classe. I dati infatti rimangono a disposizione delle scuole discriminati classe per classe. Ciò indurrà i docenti ad un atteggiamento ostile nei confronti di tutti gli studenti in difficoltà e li renderà complici della loro rapida esplulsione dalla scuola: la diminuzione del numero di studenti in difficoltà nella propria classe o nella propria scuola, infatti, inciderà direttamente sul proprio livello stipendiale.

La Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana?

Nonostante l’Invalsi assicuri che i dati verranno “depurati” da fattori esterni, i meccanismi di questa depurazione non sono affatto noti. Le variabili che incidono sui risultati scolastici, del resto, sono assai numerose. E se fossero prese davvero sul serio renderebbero inutili i test sistematici scuola per scuola. Infatti, dati alcuni fattori “esterni” i risultati scolastici sono prevedibili, a parità di risorse. Questo non significa che il successo scolastico di un singolo individuo con un certo background sociale sia inesorabile. Ma che da una “massa” di individui accomunati da uno stesso background sociale, sì, i risultati sono prevedibili. Già oggi accade così. È ovvio per qualsiasi insegnante che c’è una differenza colossale tra insegnare una stessa materia in un liceo del centro e in un professionale di periferia. Questi dati ci sono già: incrociando la provenienza sociale degli studenti con i tassi di abbandono, i voti di licenza media o di maturità e la residenza geografica, ad esempio, avremmo un quadro chiaro delle scuole da sostenere. Ma su questi dati nessuno vuol ragionare perché in realtà i fattori sociali che li determinano non li si vuol modificare: al contrario si lavora per cristallizzarli.


Una didattica piegata alla soluzione dei test 

Esistono molti dubbi, inoltre, sulla possiblità che hanno i test di valutare gli apprendimenti. E questo è particolarmente vero per i bambini della primaria il cui successo a scuola ha più a che fare con il superamento di ostacoli di natura educativa che strettamente didattica. Il problema però non è tanto nell’attendibilità dei test a valutare la qualità di una scuola, quanto nell’importanza che i loro risultati finiscono per assumere. Se si trattasse di un metro di valutazione tra i tanti, infatti, se ne potrebbe discutere. Nei Paesi dove se ne fa un uso massiccio, invece, la didattica è stata “piegata” all’esigenza di superare i test, proprio perché dai loro risultati dipendono qualità dell’utenza, finanziamenti, livelli stipendiali. Sono i test che comandano sulla didattica, dato che per ogni scuola diventa vitale che i propri studenti possano superarli con successo. Già oggi una parte del tempo in terza media è dedicato all’”allenamento” per il superamento dei test Invalsi in occasione dell’esame di stato di fine ciclo, figuriamoci cosa accadrà quando da quei risultati dipenderanno finanziamenti e stipendi.

Esistono competenze e abilità che i test non possono misurare

Per loro stessa natura i test tendono a sopravvalutare la nozione più del ragionamento, il dato più del processo. Esistono competenze e abilità che i test non possono misurare, proprio per la loro natura rigida e standardizzata. Non misurano la capacità di riflessione critica, la capacità di esporre il pensiero, il livello di partenza e quello di arrivo, la partecipazione. Misurando solo l’acquisizione di una serie di informazioni settoriali, stimolano una frammentazione della didattica, la sua banalizzazione. Esaltando la performance personale mortifica gli sforzi per arrivare alla conoscenza come conquista di gruppo, nata dalla cooperazione più che dalla competizione.

Le prove Invalsi sono particolarmente negative nella scuola primaria

Queste prove sono uguali per tutti e tutte, ma nella pratica quotidiana dell’insegnamento invece si è a contatto con i bambini e bambine reali e con le loro profonde diversità di ritmo e modo di apprendimento. Il linguaggio delle prove richiede una capacità di concentrazione e comprensione che supera quella che riconosciamo nei nostri alunni e alunne. Le insegnanti non hanno mai pensato di organizzare e mettere in pratica verifiche di questo tipo durante l’ anno scolastico. I “concetti” messi in campo e “valutati” provengono da tutti gli indirizzi cognitivi collegati alla disciplina e fanno riferimento a tutto il lavoro svolto ad iniziare dall’anno scolastico precedente e, magari, non ancora affrontato nell’anno scolastico in corso. Il tempo di somministrazione è troppo limitato rispetto alle richieste di applicazione fatte ai bambini e bambine. Lo sforzo mentale che si richiede per passare da un campo cognitivo all’altro, da un concetto ad un altro, esige che una rete connettiva forte e motivante lo contenga e lo sostenga, rendendolo possibile. Il contesto di somministrazione, senza la presenza delle insegnanti di riferimento, comporta una evidente interruzione dell’esperienza scolastica conosciuta, creando in alcuni casi stati di ansia negli alunni e alunne più sensibili. Non potendo o volendo partire dalla conoscenza degli indirizzi didattici specifici seguiti da ogni scuola nella sua originalità, le prove Invalsi si richiamano ad una superiore dimensione tecnica definita dal legislatore. Per l’Invalsi i bambini e le bambine con disabilità, i bambini e le bambine di altra cultura, sono invisibili. Per le insegnanti invece essi sono persone a cui si dedica giorno dopo giorno attenzione perché possano avere le stesse opportunità di tutti e tutte.


Queste sono le ragioni che ci spingono a chiedere che i Collegi Docenti decidano, facendo appello all’autonomia, di non prestare collaborazione alle prove Invalsi (sorveglianza, somministrazione, correzione) e di non modificare la programmazione didattica. Chiediamo anche a tutti gli altri organismi collettivi delle scuole di prendere posizione contro: assemblee sindacali ed Rsu, consigli di istituto e di circolo, collettivi e comitati studenteschi, comitati genitori. Se però le condizioni di una determinata scuola non permettono prese di posizione del Collegio Docenti, chiediamo allora agli insegnanti di aiutare i propri studenti a superare le prove Invalsi: in questo modo l’evento potrà rivelarsi un’esperienza utile e magari divertente per gli studenti, invalidandone però nei fatti qualsiasi presunzione di scientificità. Rammentiamo inoltre che la sorveglianza durante le prove non è dovuta, se va oltre le ore previste da contratto, che gli studenti possono rifiutarsi di compilare i test senza alcuna conseguenza disciplinare, e che i genitori possono decidere di tenere a casa i propri figli il giorno dei test. In poche parole al fine di boicottare le prove Invalsi vanno bene tutte le iniziative, basta che siano gestite collettivamente dalle classi. Non avrebbe senso ad esempio che ci fossero solo pochi genitori di una classe a tenere a casa i figli o che in una scuola solo pochi insegnanti si rifiutassero di somministrare i test, perché verrebbero sostituiti da altri e ciò non invaliderebbe i test. Il fine è infatti quello di rendere inservibili i risultati finali. Abbiamo la possibilità come popolo della scuola di infliggere alla Gelmini un’altra sconfitta come quella sulla premialità docente. Questa campagna di boicottaggio è una maniera per gridare: si vuole davvero che migliori la qualità della scuola pubblica? Allora: basta tagli!

Cambiare i paradigmi dell'educazione

Hanno ucciso Eusebio che difendeva le foreste per tutti noi

Io saprei a chi dare il prossimo Nobel per la pace. Sono in tanti e ognuno di loro ne meriterebbe uno. Ma essendo persone generose sono sicura che sarebbero disposte a condividerlo, anzi a dedicarlo a quello che più hanno amato in vita: le loro foreste. Credo che nessuno conosca tutti i loro nomi. Vivevano in Brasile, in Perù, in Equador, ma anche in Russia, nel bacino del Congo o nelle foreste del Borneo. Sono quelli che la cronaca chiamerebbe "rappresentanti della società civile". Ma io credo che in vita ciascuno di loro abbia rappresentato molto più.
Sono le persone che con il loro coraggio, con la loro determinazione, ma anche con la loro semplicità, il loro entusiasmo e cocciutaggine, hanno cercato di salvare foreste in ogni angolo del mondo. E che per questo sono state uccise. Assassinate da chi legalmente o illegalmente preda e divora le foreste. 
Le foreste sono quell'ecosistema che, proteggendo e formando suolo, acque, aria, rendono possibile la nostra vita su questo pianeta. La distruzione delle foreste porta al cambiamento climatico, al riscaldamento del pianeta, alla perdita di acque dolci disponibili, all'erosione del suolo fertile, alla desertificazione, alla fame, alle alluvioni, a frane e smottamenti.
Ma non solo: la deforestazione distrugge la casa di ben 60 milioni di indigeni che vivono in questi incredibili ecosistemi. Sono migliaia di tribù per cui le foreste sono casa, sono comunità, sono chiesa, sono ospedale e mensa. Il loro presente e il loro futuro è fra quei tronchi, con i piedi nel fango e la testa fra rami, liane, vapori e piogge. E noi, al chiuso delle nostre alienate città, ogni anno divoriamo, bruciamo, rubiamo e vendiamo 13 milioni di ettari di foreste. E poco ci interessa il destino di quei piccoli e grandissimi eroi che cercano di fermare questo possente crimine contro il pianeta e l'umanità.

Pochi giorni fa è stato ucciso Eusébio, un indio Ka'apor che lottava contro la deforestazione dell'Amazzonia nello Stato brasiliano del Maranhã. Prima di lui nella sola Amazzonia è toccata la stessa sorte a centinaia di grandi di piccoli eroi che chiedevano solo il diritto di vivere nelle loro foreste.
Impossibile ricordarli tutti. Ma se solo potessimo fare tesoro della loro lezione, del loro coraggio. Se potessimo scolpire da qualche parte i loro gesti eroici, potrebbe essere utile per ricordarci che quando sarà scomparso l'ultimo indigeno disposto a fermare con le mani nude la distruzione delle foreste, disposto a farsi sparare o massacrare a colpi di machete, saremo tutti infinitamente più poveri. E avremo intorno a noi un mondo in cui molto probabilmente varrà molto meno la pena di vivere
Fonte: Isabella Pratesi, Direttore del programma di conservazione WWF

venerdì 8 maggio 2015

Il maestro del trapano

Se un uomo fa un buco in un'ora, quanti buchi faranno 2 uomini in 2 ore? E quanto tempo impiegherà un uomo per fare mezzo buco?


Soluzione: Due uomini in due ore fanno quattro buchi.
Non è possibile fare mezzo buco. Provate a fare mezzo buco da qualche parte e chiedete a qualcuno che cos'è. Vi risponderà: "Un buco".

Solo nell'isola

Un uomo è solo in un'isola senza acqua né cibo. Eppure non è preoccupato neppure un po' per la sua sorte. Informazioni addizionali: l'uomo non vuole suicidarsi; non si vedono né navi, né elicotteri, né altri mezzi di soccorso; le batterie del suo telefonino sono completamente scariche; sull'isola non c'è né acqua, né vegetazione commestibile, né animali. Come si spiega?


Soluzione:
L'uomo si trova su un'isola pedonale.















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